La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 30 agosto 2011
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
In queste settimane tutto il paese è agitato dal dibattito sulla “manovra” che, se ho ben capito, consiste nel far affluire nella casse dello Stato più soldi e nel ridurre le spese statali in modo da diminuire il debito che lo Stato stesso ha con i cittadini e con le banche italiane e straniere. La manovra prevede due vincoli, la “crescita” del reddito nazionale, cioè della quantità di merci prodotte e vendute e della qualità dei servizi, e l’aumento dell’occupazione. Numerosi economisti e talvolta anche persone comuni avanzano ciascuno una propria proposta, su quali spese diminuire, su quali servizi salvare o sacrificare, su quali tasse applicare, e il tutto confluisce nel Parlamento che dovrà alla fine decidere.
Mi azzardo anch’io ad avanzare una proposta che ha a che fare con l’ambiente, ben sapendo che è improponibile perché comporta altre spese e nessuna entrata immediata. Penso ad un piano di difesa del suolo e di regolazione del corso dei fiumi che avrebbe il vantaggio di far diminuire i futuri (certi, rilevanti e crescenti) costi e danni provocati da frane, alluvioni e incendi, di far aumentare subito l’occupazione e di far aumentare la disponibilità di acqua che è la materia prima per l’irrigazione dei campi (e quindi per l’aumento della produzione agricola vendibile), per il funzionamento delle fabbriche (e quindi per l’aumento della produzione di merci per l’interno e per l’esportazione) e per il benessere degli abitanti dei paesi e delle città.
Qualcosa sta cambiando nell’ambiente dei singoli paesi e dell’intero pianeta: si tratta della modificazione degli scambi di gas e vapori fra l’atmosfera, le terre emerse e gli oceani (un insieme di fenomeni che comportano modificazioni del clima) e soprattutto si tratta di profonde crescenti modificazioni che la presenza e le attività umane stanno provocando sulla superficie del pianeta. Già un secolo e mezzo fa vari geografi hanno descritto con chiarezza come (allora) 1200 milioni di terrestri (22 milioni di Italiani) stessero modificando il flusso dei fiumi alterando gli argini naturali, trascurando la pulizia degli alvei e del corso delle acque, la permeabilità del suolo e inoltre, attraverso la diffusione delle strade e delle città, stessero distruggendo le foreste e la vegetazione, essenziali per la difesa del suolo contro l’erosione e le frane.
Oggi 7000 milioni di terrestri (60 milioni di Italiani) hanno esteso strade e città e campi coltivati e moltiplicato le fabbriche, il che sarebbe anche una cosa buona perché è aumentata anche la salute e il benessere di tante persone, purtroppo però senza prendere adeguate precauzioni di difesa della base fisica (suolo, acque, boschi, coste) su cui la crescita umana ed economica si appoggia. Non si può pensare di ristabilire la situazione del suolo di 150 anni fa, ma si potrebbero fare adeguate opere per proteggere quanto resta. La prima cosa consisterebbe nella diffusione di una cultura geografica, del suolo e delle foreste, dell’acqua e dell’interscambio fra acqua e suolo; di una cultura dei fiumi che non sono solo il magazzino di acqua per le città e i campi e i comodi e gratuiti ricettacoli dei rifiuti urbani e industriali, ma i portatori dell’acqua che è la vera fonte della vita.
Come abbiamo cura di tenere pulite le vene e le arterie dei nostri corpi per evitare infarti, così dovremmo curare la pulizia dei fiumi per evitare che il loro corso sia intasato e che le acque fuoriescano ad invadere le città e le campagne distruggendo vite umane e beni materiali. Beni che lo Stato deve risarcire e lo fa sempre poco e male e in ritardo, come dimostra la protesta degli alluvionati della Basilicata; le vite umane non sono risarcite da nessuno. Chi volesse calcolare quanto denaro pubblico è stato speso per ricostruire strade e ponti crollati, risarcire i danni delle abitazioni e fabbriche e raccolti spazzati via dalle frane e alluvioni, non farebbe fatica a trovare cifre di una diecina di miliardi di euro all’anno in questi ultimi anni.
La mia modesta proposta sarebbe di riservare una parte dei soldi pubblici che pure dovranno essere spesi, ad un piano decennale di rimboschimento, di pulizia degli alvei e di sistemazione degli argini dei fiumi, di pulizia di tutti i percorsi in cui scorre l’acqua piovana, dal vero e proprio corso dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori ai tombini urbani e alle fogne. A costo di sgombrare con la forza gli ostacoli imprevidentemente creati a sbarrare il cammino delle acque. Un’impresa che assorbirebbe un milione di lavoratori per dieci anni, che farebbe diminuire i costi dell’acqua, che creerebbe fonti di energia idrica rinnovabile e biomassa per merci e energia, farebbe aumentare la fertilità dei suoli, farebbe diminuire i devastanti incendi e l’inquinamento dei mari che allontana i turisti dalle nostre spiagge. Tutte operazioni che assicurerebbero allo Stato un ritorno con gli interessi dei soldi investiti. Utopie ? Forse no, per governanti che avessero una visione del futuro.