Metaponto: la quiete dopo la tempesta

Un intero parco archeologico trasformato in un’immensa distesa d’acqua; a rischio le sue strutture murarie. Decine gli uomini impegnati per salvare l’antica polis…

C’era una volta una città greca fondata tra le foci dei fiumi Bradano e Basento nel corso della seconda metà del VII secolo a.C. da gruppi achei provenienti dal Peloponneso su invito dei Sibariti. Il suo nome, forse derivante da un eroe indigeno Metabos, è Metaponto, una delle più importanti colonie dell’antica Magna Grecia.
A testimoniare la sua storia millenaria sono i numerosissimi scavi realizzati negli ultimi decenni, tra tutti quelli promossi da Dino Adamesteanu, nonché la febbrile ricerca archeologica condotta con scrupolo e continuità; attraverso la ricerca, infatti, si è potuto portare alla luce una vasta area costituita dal santuario, parte dell’agorà, il quartiere artigianale delle ceramiche (kerameikos) e l’asse viario nord-sud (plateia), su cui era impostato l’intero impianto urbano. 

foto di Gaetano Plasmati, Magna Grecia

A guardarlo adesso questo territorio non potresti riconoscerlo: un’enorme coltre d’acqua, caduta incessantemente in questi giorni, copre l’intero parco archeologico. Sembra di ammirare un grande lago artificiale o meglio una grande piscina greco-romana dalla quale, sembrano tenacemente riemergere capitelli dorici, muta testimonianza di un passato che non vuole essere cancellato. Guardandoli, quei capitelli, sai esattamente che lì sotto c’è una colonna lunga almeno un paio di metri, lo sai perché l’hai vista, la conosci e l’hai studiato; colonne che adesso, qui nel parco, non si vedono più: due metri d’acqua per 300mila metri cubi le hanno inghiottite; immagine simbolo di questo stato di cose è la foto scattata da Gaetano Plasmati e che fa non poca impressione.
“E’ una tristezza”, senti affermare da chi là dentro ci lavora da una vita, “perché non investire in cultura significa anche questo. Intorno al Parco ci sono i canali di scolo costruiti migliaia di anni fa, ma se i fiumi non vengono ripuliti ecco quello che succede”.
Da Salerno sono arrivate le squadre dei vigili del fuoco che intervennero sulla frana di Sarno e su quella di Soverato, chiamati comunemente i “fluviali”. Con delle grosse pompe stanno cercando di risucchiare l’acqua che ricopre il sito, ma la pioggia incessante annulla in poche ore, giornate di lavoro. Ad affiancarli ci sono tanti volontari, alcuni di loro in questo disastro hanno pure perso casa e lavoro, che cercano di spianare la strada tra il fango e l’acqua: semplici cittadini che sentono quel posto anche un poco come casa propria.

Quello che ci chiediamo sempre più spesso è: si poteva evitare? La risposta è nella struttura antica del Parco, vecchia agorà in cui avvenivano un tempo gli scambi tra le popolazioni del metapontino: i canali di scolo, infatti, erano già previsti nelle antiche carte che ne disegnavano il perimetro. I responsabili le mostrano affermando: “le risorse le abbiamo e forse questa vicenda serve anche a farle conoscere”. La lamentela è che, nella pur doverosa cronaca degli animali morti e del ponte spezzato che divide le due città, di questo gioiello, che tutti ci invidiano, come al solito se ne è parlato poco, come di tutto lo stato di calamità naturale che ha interessato la Basilicata.
Diversi sono stati gli appelli del sovrintendente ai Beni Archeologici della Basilicata, Antonio De Siena: “salvate l’antica polis!”.
“Quest’ultima calamità che ha allagato l’area archeologica ha superato abbondantemente quella del 2008”, dice De Siena, visibilmente preoccupato, in un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno. “L’acqua – continua –  ha invaso e sommerso magazzini, laboratori, attrezzature di pompaggio delle acque, compreso la strada comunale di accesso all’area archeologica”. “Gli stessi addetti alla vigilanza – aggiunge De Siena – sono rimasti isolati fino alla mattina successiva, quando alle nove sono stati tratti in salvo da un trattore partito da un’azienda agricola vicina all’area”. 
Alla domanda quali danni può aver causato l’allagamento, il sovrintendente ha affermato di “essere preoccupato per il perdurare delle acque presenti, perché la melma può aver danneggiato gli impianti elettrici di sollevamento, che provvedono a tenere costantemente asciutta tutta la zona, a tenere abbassata la falda acquifera ed a espellere le acque meteoriche, che confluiscono anche dalle zone confinanti. “Mentre i principali fattori di rischio per le strutture murarie” continua De Siena, “sono legati ai tempi di permanenza dell’acqua nella depressione dello scavo: più saranno lunghi, più c’è la possibilità che vengano disgregate le malte, facilitando la distruzione delle strutture murarie, antiche di 25 secoli. L’altro rischio è che tutti i dispositivi di drenaggio possano essere intasati dalla melma ed impedire il regolare deflusso delle acque di falda. Se ciò dovesse verificarsi i residui terrosi trasportati dalle acque in seguito all’esondazione si andrebbero lentamente a sedimentare sul fondo dell’area archeologica in strati consistenti, rendendo necessario un nuovo scavo dell’area archeologica. Allo stato attuale non è stato possibile procedere ad una prima stima anche sommaria  dei danni, in quanto tutto risulta ancora sommerso dalle acque”. (n.d.r.: prima si deve asciugare tutto e poi dovranno intervenire gli esperti: come si sa, più è antico il luogo, più sarà difficile rimetterlo a posto). 

Quando simili tragedie accadono, si ha come l’impressione che non interessi la globalità ma solo chi ne è colpito, soprattutto quando essi risiedono nel meridione e sono fuori dal circuito dei beni considerati maggiori come se il sud fosse privo di storia e di tradizione.
 Il caso di Metaponto rappresenta uno dei tanti s.o.s che i nostri amati beni culturali stanno ultimamente, sempre più spesso, lanciando al mondo: il loro stato di sofferenza si sta trasformando ormai in malattia cronica vicina al collasso totale. Quello che da sempre ci rappresenta, ed è il nostro vanto e la nostra forza, ora giace lì abbandonato senza una guida consapevole, privo di mezzi e strumenti finanziari che possano in qualche modo tutelarlo. 
Urge dunque definire, con le Soprintendenze, un piano di messa in sicurezza dei siti per prevenire ulteriori situazioni di rischio perché, in caso di nuove calamità naturali, non potranno più esserci attenuanti perché, come affermava Indro Montanelli: “Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”.

Gaetana Caterina Madio fonte Exibart






 
 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.